Merita una segnalazione l'attacco di Foti contro "una certa psicologia forense", i cui destinatari non vengono però citati, come doveroso nelle sedi tecnico-scientifiche, ma solo allusi attraverso riferimenti alla Carta di Noto e ad una presunta ideologia filocriminale:
- "Una certa Psicologia Forense (pensiamo per es. alla “Carta di Noto”), con il pretesto di contrastare gli interventi suggestivi sul bambino, sembra in realtà interessata a suggestionare lo psicologo valutatore nel senso di colpevolizzare con un’ideologia tecnicistica qualsiasi suo atteggiamento teso a favorire un clima relazionale e comunicativo che consenta al bambino di raccontare la propria verità, rinforzando così le difese e le difficoltà del bambino alla narrazione della propria esperienza – difese e difficoltà comunque già presenti in lui, sia provenendo da una situazione di menzogna, di confusione, di fraintendimento o di induzione, sia, a maggior ragione, provenendo da una situazione di abuso realmente sperimentato. L’ideologia della Psicologia Forense rinvia in ultima analisi all’interesse sociale che la determina: l’interesse dell’imputato a garantirsi l’impunità. La sua pretesa più radicale è quella di tentare di dimostrare che qualsiasi atteggiamento di coloro che hanno raccolto le rivelazioni della presunta vittima ha in qualche modo potuto sporcare la spontaneità e l’autenticità di quelle rivelazioni, le quali pertanto risulterebbero contaminate e pertanto non attendibili".
- "Chi sono i protagonisti del conflitto culturale sul tema della validazione del presunto abuso? Da un lato psicologi ed operatori che, puntando sull’ascolto clinico, possono entrare in contatto con vittime sempre meno disponibili a subire il segreto, l’imbroglio, il senso di colpa associati all’abuso, vittime che sono in grado di aprirsi nella misura in cui si sviluppano nuove possibilità relazionali ed istituzionali di ascolto partecipe (Gordon,1994) e di rispetto del codice dei sentimenti (Goleman, 1995); dall’altro lato avvocati e psicologi, specializzati nella difesa di indagati e di imputati di reati sessuali sui minori, tendono a sviluppare tesi funzionali alla difesa dei loro assistiti, cercando di dimostrare essenzialmente che comunque non esistono procedure psicologiche o giudiziarie per accertare con sufficiente certezza un abuso eventualmente sussistente.
- (…) La committenza di quest’ultima scuola di pensiero è data da un nuovo soggetto comparso sulla scena sociale negli ultimi due decenni del secolo scorso con l’aumento vertiginoso deiprocedimenti penali per abuso e pedofilia: gli imputati di reati sessuali ai danni di minori, con uno specifico interesse alla propria autodifesa e con una forte capacità di negoziazione sociale e giuridica, sono diventati, direttamente o indirettamente, un importante committente di difese e perizie legali, di pressioni giornalistiche, di ricerche sperimentali (Pope, Brown, 1996). La committenza dei clinici spinge comunque a tenere la mente aperta a diversi ipotesi piuttosto che una sola. Il committente bambino chiede in ogni caso di essere ascoltato: quando ha subito una vittimizzazione sessuale, che tende spesso ad essere minimizzata o negata dal suo ambiente, ma anche quando ha espresso una rivelazione riconducibile a ad un’induzione strumentale e patologica di un adulto oppure ad un fraintendimento ansioso oppure ancora ad un grave disagio che l’ha spinto a mentire. La committenza dell’indagato e dell’imputato è maggiormente rigida. Essa non chiede: “Voglio essere compreso”, bensì - inevitabilmente – “Voglio essere scagionato!”. (...)
Le generalizzazioni di Foti non lasciano spazio ad alcun consulente difensivo di sottrarsi alle sue offese deontologiche. Verrebbe voglia di chiedere al dott. Foti se ha mai riflettuto sui motivi per cui nelle moderne democrazie venga concesso agli imputati il diritto di difendersi in autonomia ed a testa alta di fronte ad un giudice terzo: perchè non dare la giustizia in mano alle sole procure, visto che sono animate da consulenti così autosufficienti, empatici e spinti dai PM solo a tenere la "mente aperta"?
Il tentativo di dimostrare l'altrui pregiudizialità, si trasforma in una involontaria dimostrazione della propria.
Ma non è questo il punto della nostra contestazione.
Siamo invece colpiti soprattutto dall'idea che ad ascoltare certe dichiarazioni, vi fosse in quelle occasioni un auditorio fatto di magistrati, pubblici ufficiali chiamati a consumare parte del proprio impegno retribuito per ricevere formazione tramite quei seminari:
- a che livello dev'essere scesa la dignità garantista della nostra magistratura, se davvero nessuno dei presenti ha protestato per l'argomentazione allusiva e diffamatoria o chiesto rettifiche immediate?
- e quanto tempo dovremo aspettare ancora, prima che una qualsiasi autorità giudiziaria chieda al dott. Claudio Foti di non far perdere tempo al CSM con teorie complottiste e di interrompere l'insulto alla deontologia dei colleghi che incontra nelle aule?